28 Ottobre 2022 |     
 
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Cenni storici sul mulino di valle san giorgio

Il mulino di valle S. Giorgio era uno dei numerosi piccoli opifici che battevano le acque dei Colli Euganei. I mulini di “calto”, come erano detti questi insediamenti che molta importanza ebbero per l’economia rurale dei Colli Euganei.

Le testimonianze più lontane dell'esistenza di tali attività risale al medioevo (969-1123) a Torreglia e Cinto. L'uso della macinazione era possibile perchè l'ambiente era ricco d'acqua, grazie alle numerose risorgive tra le quali importanti erano quelle di Rocca Pendice e dei laghetti del Venda quest'ultima forniva un flusso continuo d'acqua che faceva girare le ruote di Zovon.

Il mulino di Valle S. Giorgio risale presumibilmente al 1488. Il documento che lo attesta conferma che le acque del Rio Moline dovevano servire alle sole necessità dello stesso.

La descrizione che ne fa un contratto di livello dell'8 aprile 1540 fotografa una realtà non molto dissimile da quella di pochi decenni fa.

Ubicato in contrada “vocata il Molin” a ridosso della fossa Degora del Comun, nella Villa di Valle Donna Daria, il mulino era costituito da una casa “de muro et lignamine coperta cuppis, cum brodulo et furno” e da un altro edificio anch'esso in pietra; era poi circondato da piante di viti e alberi da frutto, occupando complessivamente un'area di circa seimila metri quadrati.


Proprietà di Gregorio Querini “iuris doctor”, nel 1540 venne ceduto a Luca dalla Borsa, cittadino di Padova, per un canone annuo di 18 ducati d'oro.

Un secolo dopo nel 1663 esso apparteneva al curato di Valle, Reverendo Girolamo Rizzetti.

Nel maggio del 1666 il Mulino veniva dotato di una seconda ruota il che significava che vi era notevole abbondanza d'acqua.

La famiglia Rizzetti successivamente cedette la prima ruota nel 1812 e la seconda nel 1822.

Nella gestione del mulino subentrarono due mugnai Antonio Callegari e Lorenzo Gattolin che ne divennero proprietari, dopo alcune vicissitudini giudiziarie, ben documentate e capaci di suggerirci un quadro interessante della vita di questa comunità in quel periodo.

Ottant'anni più tardi a gestire il mulino troviamo il mugnaio Sabino Segato del fu Antonio.

Il mulino continuò l'attività fino al secondo dopoguerra, dopo di che fu abbandonato.


A differenza di quelle dei mulini galleggianti o terragni di pianura, la ruota riceveva la spinta dall'alto e al posto di semplici pale presentava delle cassette o coppelle, da cui la denominazione a coppedello. Riempendo le cassette, il peso dell'acqua vinceva l'inerzia della ruota: ciò consentiva di sfruttare al massimo la ridotta disponibilità idrica spesso imbrigliata nei calti collinari.

L'acqua veniva convogliata sulle ruote per mezzo di lunghi acquedotti (doccioni) il cui tratto finale, solitamente realizzato con assi di legno, terminava sulla sommità centrale della ruota. Così alimentate le ruote idrauliche degli impianti collinari giravano in senso inverso rispetto a quelle dei fiumi di pianura.

Un altra soluzione tecnica distingueva il funzionamento degli impianti euganei.

Per bloccare il movimento delle macine l'operatore aveva due possibilità: o chiudere direttamente lo scarico dell'invaso di alimentazione, oppure agire sul tratto finale dell'acquedotto, che di norma era mobile essendo incernierato solo ad una estremità.

Per compiere quest'ultima operazione egli si serviva di una leva orizzontale o di un'asta verticale, che gli permetteva di spostare a destra o a sinistra della ruota il getto d'acqua.

Nell'azionare le leve orizzontali non era necessario uscire dal mulino, poiché queste erano regolabili dall'interno e controllabili visivamente per mezzo delle numerose finestre che si affacciavano sulla ruota.